Critica cinematografica: l’elogio del nulla

Si dice che il cinema italiano sia in crisi in realtà in crisi è la critica cinematografica italiana incapace di cogliere la bellezza e l’anima delle opere del nostro Paese. Mi viene da chiedere come alcuni giornalisti siano riusciti ad occupare posti in testate importanti. Forse, mi dico, sarà stata la dura gavetta presso le anticamere delle segreterie dei partiti. Questa è la sola spiegazione per una competenza e sensibilità artistica così spiccatamente vuota.
Una riflessione nata qualche giorno fa vedendo come la critica non abbia accettato un’opera che io definisco straordinaria. Parlo de “Il ragazzo d’oro” di Pupi Avati. In questo film, Avati indaga il rapporto padre-figlio, scavando così a fondo da trovare baratri e tenebre dalle quali nessuno riesce a sottrarsi (il padre morto suicida e il figlio che diventa pazzo).
Il tutto si intesse in una trama pervasa dall’arte (il padre è sceneggiatore e il figlio scrittore) regalandoci l’indagine su un altro tema: l’arte e la follia e anche l’arte e la distruzione dei rapporti familiari.
Questa ricerca è condotta con intensa delicatezza, con il pudore con il quale si apre un diario privato. La disgregazione (e ricostruzione) del rapporto tra padre e figlio tocca tutti gli affetti, la moglie/madre, la compagna del figlio, le amanti del padre, i ricordi, i rimorsi, emozioni di odio sopito, le rinunce.
Un film che pone numerosi interrogativi e che non fornisce risposte se non una, c’è sempre la possibilità di poter recuperare un rapporto che sembra non esistere.
Si potrebbe obiettare che non ci sono opere universalmente piacevoli e che ognuno le guarda con la propria sensibilità. E questo è vero, tuttavia la critica negativa non può investire l’intera opera, laddove l’opera offre un così intensa indagine psicologica e introspettiva narrata con chiarezza e semplicità (il film ha vinto il premio come Miglior Sceneggiatura al Festival des Films du Monde di Montreal e si sa “’Sti americani non ce capiscono niente de cinema”, direbbe uno dei nostri valenti giornalisti tra il risucchio di un bucatino e l’appunto per un brunch).
Non riuscire a cogliere tutto questo, non riuscire a saper osservare in un’opera, in questo caso cinematografica, in tutte le sue più profonde sfumature significa essere miopi o ciechi, privi di quella sensibilità necessaria per rapportarsi con  l‘arte e non con un mero intrattenimento. Il cinema è una delle più complesse opere d’arte (visto che in essa confluisce musica, immagini, scrittura, recitazione…), trattarla alla stregua di una mediocre esibizione circense, fa capire quanto la corte di critici che anima le redazioni e le pagine dei giornali cartacei ed elettronici si sia formata ed assuefatta a prodotti ( in questo caso il termine è appropriato) da discount cinematografico. L’introspezione non viene accolta perché incompresa. Ciò che queste prestigiose penne consigliano al pubblico sono solo pacchi colorati, ben confezionati ma vuoti, che una volta scartati finiscono nel dimenticatoio. Si potrebbe parlare dell’elogio del nulla.


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